di Sergio Carlotta
Erano ormai due anni che mi trovavo ad Auschwitz, uno dei tanti campi di concentramento
presenti in Polonia. Ero arrivata lì nell’aprile del 1942, avevo sedici anni. Ho trascorso due anni d’inferno e desideravo, più di ogni altra cosa, di ritrovare la mia libertà. Ero arrivata al campo insieme alla mia sorellina Ella di dieci anni, una bambina vivace dai riccioli d’oro.
Siamo state separate dai nostri genitori subito dopo essere arrivate.
Una volta entrate nel campo ci fecero indossare abiti a righe e ci misero in alcune minuscole stanze, i letti erano davvero scomodi e non potevamo lavarci quasi mai, per questo molti di noi erano in pessime condizioni.
I pasti erano poveri, mangiavamo pane o piccole quantità di zuppa e chi non aveva il suo cucchiaio spesso non poteva mangiare, era una situazione terribile.
Molti dei bambini e dei ragazzi venivano sfruttati a scopi sperimentali e chi veniva reputato troppo debole per poter svolgere qualsiasi compito, veniva portato nelle camere a gas e ucciso; la maggior parte però moriva per malattie causate dalla scarsa igiene, nessuno di loro si meritava una fine del genere.
Alcuni di noi, che stavano per raggiungere la maggiore età, venivano reputati abbastanza grandi per svolgere lavori in miniera, altri fingevano di essere più grandi per poter lavorare e avere una possibilità in più di rimanere in vita, mentre alcuni erano più fortunati avendo genitori esperti in campo medico; perciò non venivano uccisi in cambio della presenza dei genitori nelle infermerie.
Spesso i primi a morire erano i più piccoli, troppo fragili per lavorare.
Ella era riuscita a nascondere il suo peluche preferito, un orsacchiotto di pezza che le era stato regalato dai nostri genitori per il suo terzo compleanno e dal quale non si era più separata.
Ogni volta che una guardia tedesca entrava nella stanza, Ella nascondeva l’orsacchiotto sotto una mattonella rialzata che si trovava nascosta da uno dei tanti letti, in questo modo le guardie non lo avrebbero potuto trovare.
Spesso venivano radunati piccoli gruppi di bambini ai quali veniva chiesto se avessero voglia di andare a trovare i loro genitori, solamente con il tempo capii che era una scusa per portarli via e condurli nelle camere a gas, perché nessuno di loro tornava più.
Un giorno, nel lontano agosto del 1943, venni portata insieme ad un gruppo di ragazze a fare una visita medica, venni pesata, misurata e controllarono che non avessi alcun tipo di malattie così da non dovermi rinchiudere in una di quelle orribili docce. Una volta tornata però non trovai più Ella, la cercai ovunque nella camera, ma di lei non c’era nessuna traccia. Andai a controllare sotto alla mattonella, ma era sparito anche l’orsacchiotto e a quel punto mi ritrovai totalmente nel panico, Ella era sparita.
Provai a chiedere ad una ragazza che si trovava nella stanza con me; Katherine, una ragazza ebrea di diciotto anni che morì poco prima della liberazione di Auschwitz, ma purtroppo non aveva alcuna idea di dove potesse essere Ella, chiesi anche ad una guardia, una donna alta con i capelli biondi che camminava in modo sicuro e intimidatorio, ma inutile dire che non mi diede alcuna risposta anzi, mi urlò contro qualcosa in tedesco che non riuscì a decifrare, ma suppongo significasse di tornare in camera, dato che puntò il fucile in quella direzione.
Decisi allora che avrei aspettato il ritorno di Ella, forse anche lei era stata chiamata per la visita o forse doveva svolgere alcune attività per bambini più piccoli, non volevo immaginare che le fosse accaduto qualcosa di terribile.
Era ormai sera, ma di Ella non c’era traccia, sarei voluta uscire dalla stanza e andare a cercarla, ma ero ancora sconvolta e decisi che avrei aspettato, inutile dire che passai tutta la notte piangendo.
La mattina seguente mi svegliai distrutta, ma dovevo assolutamente agire così decisi che la notte successiva sarei andata a cercare la mia sorellina e così feci; dopo una lunga giornata arrivò il momento di andare a dormire, così aspettai che tutte le ragazze si addormentassero e, appena spuntò la luna piena, uscii dalla stanza.
Fuori l’aria era congelata, tremavo dal freddo avendo solo una misera copertina sfilacciata e non ero nemmeno sicura che quella fosse una buona idea, se le guardie mi avessero trovata non avrebbero esitato a puntarmi un fucile alla testa e uccidermi, ma dovevo farlo, per Ella. Dovevo assolutamente raggiungere le camere a gas, lì avrei potuto trovare gli elenchi dei bambini uccisi e quindi scoprire se Ella fosse ancora viva.
Appena sentii un rumore di passi, mi nascosi dietro un enorme sacco e rimasi immobile in silenzio aspettando che quella figura andasse via; ella perlustrò tutta la zona e quando la vidi sparire dietro un muro decisi che era meglio scappare, ma, sfortunatamente per me, schiacciai accidentalmente un bastoncino che fece un sonoro crack!
Era la mia fine.
Accadde tutto molto velocemente, vidi l’enorme figura tornare indietro, mi gettai subito in una
catasta di paglia lì vicino e nel farlo mi graffiai la gamba sinistra che iniziò a sanguinare, maledissi quel bastoncino e pregai che la guardia non si fosse accorta di me.
Ero accovacciata, i capelli neri mi ricadevano sul viso e facevo fatica a vedere cosa stesse succecendo.
Quando mi accertai che non ci fosse più nessuno, uscì dal mucchio e controllai la ferita alla gamba che non sembrava troppo grave, la coprii con la coperta e a quel punto decisi che, pur avendo molto freddo, avrei dovuto continuare la mia ricerca.
Non sapevo minimamente dove fossero le camere a gas, ma conoscevo la direzione che prendevano le guardie insieme ai bambini che “andavano a trovare i loro genitori”, perciò decisi di seguirla e iniziai a camminare rimanendo sempre in allerta, spesso mi giravo per controllare che non ci fosse nessuno.
Giunsi di fronte ad un cancello, oltre quest’ultimo c’era una struttura con la porta aperta che era circondata da una rete, forse le guardie avevano dimenticato di chiuderla e oltre intravidi delle docce.
Inizialmente pensai che fossero semplici bagni, ma poi ricordai che tempo prima avevo parlato con un’anziana signora, eravamo vicine nel vagone che ci aveva condotto nel campo e mi disse che i ragazzi che non si comportavano bene venivano portati in alcune stanze pensando di potersi lavare, ma la verità era che venivano uccisi dal gas, inizialmente non ci credetti, ma in quel momento, non avendo nessun’altra pista, decisi che avrei controllato in quella stanza.
Il cancello davanti a me non si apriva e dovetti pensare in fretta a qualcos’altro per entrare, d’improvviso vidi un buco nella rete che circondava la struttura e capii che l’unica alternativa era passarci attraverso, perciò mi piegai e iniziai a strisciare sotto la rete facendomi qualche graffio qua e là.
Una volta giunta dalla parte opposta della rete mi alzai in piedi, dovevo sbrigarmi altrimenti mi avrebbero scoperta.
Entrai nella stanza; era buia e polverosa, le pareti sembrava cadessero a pezzi e il pavimento era sudicio e logoro, alle pareti c’erano quelle che sembravano essere delle docce, mi avvicinai e provai a girare la manopola ma niente, non uscì neanche una goccia d’acqua e capii di aver trovato il posto che cercavo.
Mi avvicinai ad una stanza collegata alla camera a gas e trovai un mucchio di abiti di taglie
diverse, lì venivano lasciate le tute dei defunti.
Esplorando la stanza, vidi qualcosa, qualcosa che non avrei mai voluto trovare; un orsacchiotto.
La mia ricerca era finita, avevo trovato l’orsacchiotto di Ella e ciò poteva significare solo una cosa: Ella non c’era più.
Riuscii a tornare nella stanza, avevo l’orsacchiotto in una mano e piangevo, piangevo disperata, non avrei più rivisto la mia sorellina.
Per il resto del tempo trascorso ad Auschwitz non feci altro che eseguire gli ordini, ho sempre dormito insieme all’orsacchiotto fino al famoso giorno in cui siamo stati liberati. Il 27 gennaio del 1945 i soldati sovietici dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio nazista di Auschwitz.
Ci portarono via da quello che per molti anni fu un luogo di torture e nei giorni successivi ci controllarono e ci diedero da mangiare, ci chiesero nome e cognome e se stessimo cercando qualcuno, in molti avevano scordato la propria identità, perché ormai abituati al numero che portavano sul braccio.
Poco dopo una persona mi chiamò, disse che qualcuno mi stava cercando, in lontananza
vidi una piccola figura, non potevo credere ai miei occhi, era Ella.
Inizialmente pensavo fosse frutto della mia immaginazione, ma quando mi corse incontro e
mi abbracciò, capii che era tutto reale, non era stata uccisa.
Mi raccontò che una bambina le aveva rubato il peluche e quindi aveva deciso di seguirla insieme ad un altro gruppetto, però aveva capito che qualcosa non andava, perciò non fece in tempo a recuperare il peluche e si allontanò dal gruppo, per il tempo successivo era stata aiutata da una donna che l’aveva trovata nascosta mentre tornava dal lavoro in miniera.
Avrebbe voluto avvisarmi, ma sarebbe stato troppo pericoloso.
Le restituii il suo orsacchiotto e le raccontai quello che era successo dopo la sua sparizione.
Alla fine raggiunsi il mio scopo, riuscii a trovare mia sorella, la mia ricerca in quel momento era
davvero conclusa.